Dante Alighieri e la lingua
Padre della lingua italiana, il sommo poeta ha lasciato un'impronta indelebile nella storia della letteratura, creando delle espressioni divenute proverbiali. Ecco quelle più famose, che molti utilizzano senza saperlo
Fertile
Un aggettivo oggi diffusissimo, ma che nel '300 non era ancora entrato nell'uso comune. Fu proprio grazie alla Divina Commedia che questo latinismo venne introdotto per la prima volta. Dal verbo latino ferre, ovvero “portare, produrre”, Dante utilizza questo termine nel canto XI del Paradiso: siamo nel celebre canto di San Francesco, e la “fertile costa” (verso 45) descritta dal poeta indica il luogo dove nacque il santo.
Gabbo/gabbare
Il verbo “gabbare” compare per ben 4 volte in un'altra celebre opera dantesca, Vita Nova, dove il poeta ripercorre le tappe fondamentali del suo amore per Beatrice. La parola deriva dal francese antico “gaber”, tratto a sua volta dall'antico nordico “gabb”, ovvero “scherzo, beffa”. Il verbo è già presente nella lingua fin dai primi anni del XIII secolo con il significato di “ingannare, prendersi gioco”, anche se la fortuna del termine, insieme al sostantivo “gabbo”, è certamente attribuibile agli scritti del poeta. Si pensi, ad esempio, al celebre proverbio “ fatta la grazia/finita la festa, gabbato lo santo”.
Mesto
Un termine che compare per la prima volta proprio nella Divina Commedia, ricorrendo per ben tre volte nella cantica infernale. Dal latino “maestus”, participio passato del verbo “maerere”, ovvero “essere addolorato”, il sommo utilizza questo termine per descrivere la triste condizione dei dannati.
Molesto
Dal latino “moles”, ovvero “peso, fardello”, questo termine è presente in tre canti infernali e in uno del Paradiso. Gli episodi in cui è ricorre sono famosissimi, da quello di Farinata degli Uberti fino al canto di Cacciaguida, che usa il termine per annunciare al poeta il triste futuro che lo attende. Anche in questo caso il termine era già in uso, ma fu certamente il poeta a decretarne la diffusione capillare.
Quisquilia
Altro termine latino, traducibile con “rifiuti, immondezze” e con il significato di “bazzecola, inezia, piccolezza”. Sebbene l'uso sia attestato già nel 1321, è ancora una volta Dante a diffonderne il significato moderno, così come lo conosciamo oggi, nel XVI canto del Paradiso.
Far tremare le vene e i polsi
Ancora oggi la usiamo per riferirci a qualcosa che ci terrorizza profondamente. Dante la utilizza nel canto I dell'inferno, quando nei versi 87-90 chiede a Virgilio di salvarlo dalla Lupa, una delle tre fiere che ha incontrato nella selva oscura, dove “la dritta via era smarrita” (v.3, canto I).
Non mi tange
Ovvero “non mi sfiora neppure, non mi interessa”. E' Beatrice a pronunciare queste parole nel canto II dell'Inferno, quando spiega a a Virgilio di non temere affatto il regno di Lucifero, poiché lei è una creatura di Dio, ormai tra i beati del Paradiso, e quindi l'infelicità di quel luogo non ha alcun effetto su di lei.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate
Sicuramente avrete letto questa frase sul portone di qualche scuola. Si tratta dei terribili versi incisi sulla porta dell'inferno (v. 9, canto III), che ammoniscono chi entra a lasciarsi alle spalle ogni speranza di salvezza dall'eterna dannazione.
Il gran rifiuto
Colui che “fece per viltade il “gran rifiuto” (v.60) nel canto III dell'inferno altri non è che Celestino V, il papa che rinunciò al pontificato (dove gli successe Bonifacio VIII, tra i promotori dell'esilio di Dante), in favore di una vita eremitica. Questo dannato si trova fra coloro che vissero “sanza 'nfamia e sanza lodo” (v.38). Si tratta degli ignavi, coloro che in vita non ebbero il coraggio di prendere una posizione tra bene e male, evitando di assumersi le proprie responsabilità.
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa
Nel canto III ha origine un altro famosissimo proverbio. Con queste parole (spesso riportate con la variante "non ti curar di loro") Virgilio esorta Dante a non parlare con gli ignavi, rivolgendo loro la stessa indifferenza e apatia che essi ebbero nei confronti del mondo quando erano in vita. Perché certe volte, l'indifferenza è più forte dell'odio.
Galeotto fu…
Nella versione originale la frase termina con “'l libro e chi lo scrisse”, oggi invece siamo soliti completarla con le espressioni più variegate. Ci troviamo nel famosissimo canto V dell'Inferno, dove Francesca racconta al poeta il suo infelice amore per Paolo. I due amanti infatti si innamorarono leggendo un libro sulle imprese di Lancillotto e i cavalieri della Tavola Rotonda, dove fu proprio Galehaut, siniscalco di Ginevra, a spingere la regina tra le braccia del bel cavaliere, tradendo così re Artù. Il libro che la coppia di Rimini leggeva (prima di abbandonarsi ad un peccaminoso bacio) ha dunque assolto lo stesso compito che nel racconto cavalleresco fu di Galeotto: spingere l'uno tra le braccia dell'altra.
Fatti non foste a viver come bruti...
...ma per seguir virtute e canoscenza” (vv.119-120,canto XXVI ). E' con queste parole che il personaggio di Ulisse incita i suoi compagni a seguirlo nella folle impresa di attraversare le colonne d'Ercole (lo stretto di Gibilterra), un tempo ritenute i confini del mondo. Oggi è un'espressione proverbiale, usata per incitare a vivere come uomini e non come bestie, seguendo la virtù e e la scienza come grandi ideali.
Cosa fatta, capo ha
Proverbio che più toscano non si può, che Dante cita nel canto XXVIII dell'inferno con le parole "capo ha cosa fatta" (v.107). Il poeta riporta la frase attribuita a Mosca dei Lamberti, che pronunciò il celebre motto durante una riunione indetta per uccidere Buondelmonte dei Buondelmonti. La frase risoluta significa che una cosa, quando viene fatta, ha sempre un capo, ovvero un fine, uno scopo preciso, mentre l'indugiare non porta a nulla.
Stai fresco
Un'espressione comunissima, che deriva dalla struttura stessa dell'Inferno dantesco. Secondo il poeta il regno di Lucifero avrebbe la forma di un cono rovesciato, il cui vertice coinciderebbe col centro della Terra. E' proprio nel nono cerchio, il punto più basso della struttura, che si trovano i traditori, ovvero coloro che si sono macchiati del peccato più grave agli occhi di Dio e che, a seconda della gravità della colpa, sono più o meno immersi nel Cocito, un enorme lago ghiacciato. Nel XXXII canto con l'espressione “i peccatori stanno freschi” (verso 117), il poeta si riferisce proprio a questa zona, dove i dannati vengono colpiti da gelide raffiche di vento prodotte dalle ali di Lucifero. Grazie alle potenti immagini del poeta, l'espressione viene ancora usata per indicare qualcosa che andrà a finire male.
Il fiero pasto
Un pasto bestiale, ovvero quello che il Conte Ugolino sta consumando nel canto XXXIII dell'Inferno. Quando Dante e Virgilio arrivano al suo cospetto, il dannato imprigionato nel ghiaccio sta letteralmente divorando il cranio dell'arcivescovo Ruggieri, colui che in vita fu la causa di tutte le sue sventure che lo portarono all'Inferno. Un vero e proprio atto di cannibalismo, con cui il Conte cerca invano di vendicarsi.
Il bel paese
Sempre nel canto del Conte Ugolino, Dante si abbandona ad un'invettiva contro la città di Pisa, definendola “vituperio de le genti” di quel “bel paese là dove 'l sì suona” (vv.79-80). Dante definisce la Penisola un “bel paese” dove si parla il volgare del sì, ovvero l'italiano volgare.
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