quarta-feira, 12 de outubro de 2016

Sono Lula e prometto: non mangio i bambini (Copyright "L'Espresso" - "The Economist")


Sistemando le mie cose ho trovato questo servizio pubblicato nel 1994

Tuona contra i latifondisti ma non vuole confiscare le terre. Attacca le multinazionali ma tratta con gli imprenditori. Ecco chi è il rosso Luiz Inácio da Silva. Favorito nel voto di ottobre

Mancano ancora sei mesi alle elezioni presidenziali in Brasile., ma Luiz Inácio da Silva non sta perdendo tempo. "Lula"- questo è il suo soprannome ormai ufficialmente adottato - guida sia il Partito dei Lavoratori (PT) che la coalizione che dovrebbe sostituire il presidente in carica Itamar Franco. Da mesi, Lula sta percorrendo in lungo e in largo il Brasile spostandosi in auto, in camion, in autobus e in barca. "Questi viaggi - che egli chiama "carovane del popolo" - significano per lui qualcosa di più di una semplice campagna elettorale.

Lula ha toccato con mano le contraddizioni di una nazione grande quanto un continente. Ha camminato sul fondo asciutto dei laghi artificiali del Nord-Est che anni di aridità - politica, oltre che climatica - hanno ridotto ad argilla secca. É sprofondato nel fango attraversando quelle che un tempo dovevano essere strade. Infine, ha visitato il Sud del Brasile, granaio di un paese dove la maggioranza della popolazione soffre la fame. 

Lula è, per sua scelta ed estrazione, un uomo del popolo. Ha lasciato l'arido Nord-Est per guadagnarsi da vivere a San Paolo, e da semplice operaio è salito ai vertici della politica brasilaina. Ha cominciato a lavorare a 11 anni in una lavanderia automatica e a 14 ha lasciato la scuola per entrare in una fabbrica metallurgica. In quella fabbrica ha perso un dito sotto una pressa, ma ha imparato a conoscere una società deformata dall'autoritarismo e da un capitalismo predatorio. Oggi, è il favorito alle elezioni di ottobre: i sondaggi lo vedono in testa con il 30 per cento delle preferenze.

Massiccio, la barba nera e la voce aspra, Lula rappresenta un volto nuovo per una sinistra i cui "militantes", in questo continente, stanno ancora scrollandosi di dosso i calcinacci del muro di Berlino. Per anni le oligarchie hanno raccontato alla gente che la sinistra era fatta esclusivamente da comunisti che mangiavano i bambini. Ma il PT non sembra affatto così truce. Nato a San Paolo nei  tardi anni 70, esso è diventato in breve tempo, un partito nazionale. E come la maggior parte dei partiti di sinistra in America Latina, accetta oggi i principali fondamentali della vita democratica e cerca di attuare la rivoluzione non più con il piombo, ma con le schede elettorali. E inoltre ha stretto solidi legami con il clero progressista.

Lula fa anche appello al rimorso degli elettori. Ricorda spesso che nel 1989, in occasione delle elezioni presidenziali, fu battuto di stretta misura da Fernando Collor de Mello, rampollo di una potente famiglia del Nord-Est. Ma Collor è stato poi destituito per corruzione a metà del suo mandato. Il partito di Lula ha contribuito con grande forza alla sua estromissione ed è uscito indenne da questo come da altri scandali.

Lula deve superare ancora grossi ostacoli sulla via della presidenza. Le masse brasiliane si lasciano tradizionalmente abbindolare da leader carismatici populisti che si affacciano al balcone e promettono la luna, distribuendo pane, materassi, riso e persino dentiere. Lula rifiuta queste pratiche demagogiche. Il suo partito preferisce distribuire slogan sui diritti dei cittadini e sulla sovranità, sull'oligarchia e sull'imperialismo. Questi non riempiono la pancia, ma fanno presa su chi ha già lo stomaco pieno - studenti, intellettuali, dipendenti sindacalizzati del settore pubblico ferocemente ostili e qualsiasi reduzione della burocrazia o alle privatizzazioni.

Un grosso ostacolo è costituito dallo stesso Partito dei lavoratori, diviso fra l'ultrasinistra dei cosiddetti sciiti e la destra riformista. I 37 deputati del PT votano generalmente a favore di uno Stato più snello, di oculate privatizzazioni e di una liberalizzazione dell'economia. Ma la direzione del partito disapprova tutto questo e, fino alla scorsa settimana, quando ha cambiato opinione a malincuore, ha proibito loro di partecipare ai lavori per la revisione della Costituzione del 1988, che la sinistra aveva contribuito a redigere.

Lo stesso Lula ha cambiato subito musica per far contenta la sua confraternita, professando la sua fede nell'intervento dello Stato nell'economia. I suoi discorsi rimbombano di invettire contro i banchieri, le multinazionali e  L'"ordine finanziario internazionale". Ma poi, di fatto, corteggia assiduamente i diplomatici stranieri e i leader dei partiti rivali, e lo scorso anno ha partecipato a 54 riunioni con imprenditori. A parole, tuona contro i grandi proprietari terrieri a favore di milioni di famiglie senza terra. Ma poi nega di voler confiscare i latifondi, e in privato riconosce che i contadini emarginati dalla moderna agricoltura non troveranno facilmente nuove occupazioni nelle campagne. Dal pulpito, si scaglia contro le devastazioni provocate dall'economia di mercato. Ma quando smette di predicare, non parla di utopie socialiste, ma di un capitalismo con un volto più dolce.

"Chiamatemi pure neoliberale, comunista, socialista, o quel che volete", ha detto in diverse occasioni: "Io voglio semplicemente risolvere il problema della miseria estrema che affligge il popolo brasiliano". Tutte le strade sono aperte, aggiunge: "Siamo pronti a trattare". Cosa vorrà dire con quest lo si potrà vedere solo se davvero riuscirà a conquistare il potere. Ammesso che il suo partito non si spacchi prima delle elezioni.



(testo pubblicado su "Espresso - The Economist" dell'8 aprile 1994)

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