terça-feira, 1 de março de 2016

Le parole delle donne - Cecilia Robustelli


Usare la declinazione al femminile per riconoscere pienamente alle donne il loro ruolo nella società e nel lavoro

La nostra cara lingua italiana conosce alcuni usi poco rispettosi nei confronti delle donne: per esempio certe espressioni un po' vecchiotte ma che risuonano spesso ancora oggi, specialmente in bocca maschile, come donna al volante, pericolo vagante e chi dice donna dice danno, ma anche il toscanissimo invito a non fare la dottora.

Attenzione, non si tratta di modi di dire innocenti, anche se vengono di solito pronunciati con un sorriso, ma di veri e propri "stereotipi", ciòe espressioni fisse, generalizzate, riflesso di luoghi comuni, che sviliscono la figura femminile perché ne danno un'immagine negativa e subalterna rispetto all'uomo. E poi (anzi, soprattutto!) l'uso del genere grammaticale maschile invece che femminile per i termini che indicano ruoli istituzionali o titoli professionali prestigiosi riferiti a donne. Alle forme femminili architetta, chirurga, direttrice, ingegnera, ispettrice, notaia, procuratirce, rettrice e assessora, cancelliera, consigliera, deputata, funzionaria, ministra, sindaca che sono grammaticalmente corrette e, se relative a ruoli istituzionali, hanno pieno valore giuridico, si preferiscono quelle maschili.

Così sebenne nessuno si azzardi a definire Federica Pellegrini o Antonella Clerici nuotatore o conduttore ma scelga, correttamente, nuotatrice e conduttrice, si continua a preferire il ministro Maria Elena Boschi o il direttore del Cern Fabiola Gianotti e la ministra Maria Elena Boschi e la direttrice del Cern Fabiola Gianotti.

Evidentemente ci sono forti resistenze di tipo culturale, e non linguistico, che frenano l'uso di alcune forme femminili.

Qualcuno sostiene addirittura che siano "brutte", ma questo è un giudizio molto soggettivo e giustificabile solo quando si parla di linguaggio letterario, non quotidiano: forse parole come professora o infermiera sono "belle"?

Altri ritengono che usare la forma maschile aggiunga prestigio al ruolo o alla professione, ma è mai possibile che una donna debba "travestirsi" linguisticamente da uomo per aver successo.

E che tutto il cammino compiuto da donne e uomini verso la parità di diritti e il pieno riconoscimento del loro valore, nel rispetto delle differenze, debba essere nascosto sotto una terminologia al maschile?

Quando si usa il genere grammaticale maschile, infatti, si evoca solo l'immagine di un uomo: i termini notaio, deputato o rettore fanno pensare che ci si riferisca a un uomo, non a una donna.

Il maschile non è neutro! Se lo si usa per una donna si "cancella" la presenza femminile in determinati ruoli e professioni, e si compie quindi una vera e propria discriminazione perché non si riconosce il cammino fatto dalle donne sul piano lavorativo, sociale e personale.

E inoltre si può rincorrere in equivoci a svantaggio della chiarezza comunicativa: un rischio, questo, molto grave specialmente quando sono le istituzioni a commetterlo, ma anche quando ci cascano (talvolta ad arte!) i media.

Qualche anno fa un giornale pubblicò un articolo intitolato Il sindaco di Cosenza: aspetto un figlio. Il segretario DS: il padre sono io che suscitò non poche perplessità nei lettori finché non fu chiaro che "il sindaco"... era in realtà "una sindaca"!

Che fare allora? Convincersi che è indispensabile riconoscere pienamente alle donne il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese, e che il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo.








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