segunda-feira, 4 de abril de 2016

Quanto ti invidio! - Roberta Nesi


Il risentimento verso gli altri è innato nelle persone di talento. Perché? Sono più i soldi, la fama, l'auto di lusso o la bellezza a scatenarla? Per la scienza si può esserne immuni?

È uno dei sentimenti più diffusi e sentiti, ma allo stesso tempo è quello che ammettiamo con maggiore reticenza. È l'unico vizio capitale completamente inutile (a differenza della gola o della lussuria), eppure ha un potere così forte da far soffrire tantissimo. I sociologi non sono ancora riusciti a capirla bene ma, nella storia, l'invidia ha portato anche grandi cose: la volta della cappella Sistina, per esempio, venne affidata a Michelangelo (stando alla sua testimonianza) dietro insistenza del Bramante, invidioso delle sue qualità e convinto che, più debole sul piano pittorico, Michelangelo non avrebbe prodotto capolavori. Ma come nasce l'invidia?

Ci rende non obiettivi

Cominciamo dalla parola stessa: viene dal latino invido, ovvero guardare male, di traverso, di malocchio (scacciare il malocchio, nelle regioni italiane meridionali, vuol dire allontanare l'invidia). L'invidioso guarda per fulminare l'oggetto odiato e senza obiettività. Ecco perché, quando siamo invidiosi di qualcuno, non riusciamo a vedere nemmeno un lato positivo. E non a caso si dice che l'invidia acceca. Il sociologo Francesco Alberoni, nel suo Gli invidiosi, scrive: "L'invidioso sminuisce il successo altrui, sostenendo che sia frutto di un'ingiustizia. Se, però, nelle stesse condizioni quel riconoscimento fosse andato a lui, allora sarebbe stato meritato".

Come nasce in noi?

Fondamentalmente dall'insicurezza. È la tesi dello psicologo Umberto Galimberti secondo il quale siamo insicuri, non ci conosciamo e allora invidiamo. Per il sociologo austriaco Helmut Schoeck, l'invidia fa parte della natura dell'uomo, non possiamo farci niente. E, in fondo, i grandi sistemi mitologici del passato, dalla Bibblia ai miti greci, fanno riferimento a invidiati e invidiosi. La storia di Caino e Abele, per esempio: Abele è così geloso delle attenzioni che Dio riserva al fratello da arrivare a uccidere quest'ultimo. L'antica divinità greca Zeus era molto più veemente: talmente invidioso della felicità e della completezza dell'uomo che decise di dividerlo in due, così che, da allora, ognuno di noi è condannato a cercare la metà di se stesso. Non si invidia tanto il successo (qualora anche questo sia oggetto di brama) quanto piuttosto la completezza e la felicità. "L'invidia", continua Galimberti, "tende a contrarre l'espansione degli altri per l'incapacità di espandere se stessi, per cui è un'implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla".

I talenti sono più a rischio

Secondo il filosofo greco Platone, Socrate venne condannato dai democratici al potere solo per invidia, poiché aveva raggiunto una piena felicità datagli dalla saggezza. E secondo il poeta inglese William Shakespeare fu proprio l'invidia dei congiurati a causare l'assassinio di Giulio Cesare. Il celebre retore latino Marco Tullio Cicerone sosteneva che l'invidia è il male peggiore. Ebbene, lui stesso fu atrocemente invidiato dal collega Quinto Ortensio Ortalo. Ma Cicerone seppe reggere con intelligenza il confronto, tanto che alla fine divennero amici. Il filosofo Friedrich Nietzsche disse che il mondo invidiò Napoleone per la sua grandezza.

Celeberrima l'invidia del compositore Antonio Salieri per Mozart. Anche se la storia per cui lo avrebbe avvelenato è una diceria, il poeta russo Aleksandr Sergeevic 'Pus'kin credette a queste voci e, nel 1830, scrisse un breve dramma in versi, Mozart e Salieri ( in origine intitolato Invidia). Nell'opera, Salieri, pieno di invidia per il giovane musicista, commissiona al rivale un Requiem, con l'intento di rubarglielo e spacciarlo per suo, beninteso una volta avvelenato Amadeus.

L'invidia è quasi connaturata alle persone dotate di straordinario talento, poiché trovano in questo spirito competitivo la benzina per far meglio. Non stupiscano, quindi, le rivalità tra personaggi famosi (i campioni di ciclismo Coppi e Bartali sono un altro classico esempio). Così come fu l'invidia reciproca a infiammare il genio dei compositori Verdi e Wagner. Secondo l'economista norvegere Jon Elster, "emozioni come il senso di colpa, l'invidia, l'indignazione o la vergogna, combinando con altre motivazioni quali l'interesse individuale, svolgono un ruolo non trascurabile nella determinazione del comportamento sociale ed economico".

Alla base dell'uguaglianza

Secondo Nietzsche, l'invidia è alla base di una società equalitaria. Così scrive in Umano troppo umano: "L'invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino a essa. Pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale". E il filosofo Remo Bodei rincara: "In una società in cui tutti sono uguali fatalmente ci si chiede perché tizio è più ricco o più famoso di me, ciò evidenzia un rapporto tra uguaglianza e invidia".

Secondo molti sociologi questo sarebbe alla base delle rivoluzioni proletarie: non voglio la tua ricchezza, però non devi averla nemmeno tu. Meglio tutti uguali, anche se aappiatit verso il basso. Non è un caso che molte promesse elettorali siano rivolte "in basso", cioè a coloro che non possono avere. Non si dice: "Vi renderò ricchi", bensì: "Vi farò pagare meno tasse", "Ridistribuiremo la richezza". L'invidia livella.

Una caratteristica degli invidiosi è disprezzare l'oggetto invidiato. Illustra bene questo concetto la favola di Esopo La volpe e l'uva: non potendo arrivare al grappolo, l'animale allontana dicendo che è acerba.



(testo pubblicato sulla rivista Airone nº 325 - maggio 2008)

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